1. Raccolta piccoli-vecchi articoli sul Giappone

    AvatarBy Souji Okita il 28 Feb. 2017
     
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    "Morire per continuare a combattere”
    Un breve racconto di Souji Okita


    La foresta di Aokigahara, il sentiero dei suicidi

    Questo non vuole essere un articolo come gli altri, ma un mio breve racconto sull’argomento, e per far questo, necessito di fare una premessa. Il concetto di suicidio in Giappone è molto complesso, forse troppo per poter esser trattato in poche righe, ma penso che la sua risonanza, per quel che riguarda il Giappone sia così alta, che merita una citazione. Questo vuole essere solo un mio pensiero personale che possa incuriosirvi ed esprimere un’opinione sull’argomento.
    Ovviamente il tema del suicidio può avere una base storica a partire dal primordiale concetto shinto secondo cui morire da suicida vuol dire andarsene dalla vita fallita per ricostruire una nuova vita ultraterrena forte e onorevole. Ma questa è una concezione puramente “samuraica” e oltretutto prosaica se vogliamo. L’idea che un uomo possa commettere una buona azione per se stesso e la sua stirpe uccidendosi è comunque qualcosa che si allontana dal nostro immaginario viziato, per forza di cose, da una concezione cattolica, di peccato e di colpa. E invece il suicidio secondo l’ottica giapponese è visto come rigenerativo, come forza per potersi dare una seconda possibilità avendo fallito in vita. Una boiata? Una giustificazione? Un dolore represso mai espresso? A voi la parola.. io, tornando indietro di qualche migliaio di anni l’ho pensato così:



    Quel giorno era una pallida mattina di inverno. La rugiada inumidiva il verde sotto i nostri piedi. I foderi delle katane si bagnavano al veloce contatto con l’erba e subito si asciugavano nello sferzare il vento al correre dei samurai; un ciclo continuo che ricorda la rinascita dell’acqua in rugiada e la sua morte nel sole. Anche la morbida stoffa degli hakama era costretta allo stesso destino. Ero certo che un dubbio avrebbe assalito i guerrieri: Una volta fermi, cosa rimarrà? La rugiada o il vento? La rinascita o la morte? Era indubbio che saremmo dovuti morire, ma in che modo? Con o senza speranza? Non lo avrei mai saputo. Tutta la mia riflessione poteva semplicemente essere paura, ma in quel momento non potevo ammetterlo, sarebbe sembrato disonore, ma più che altro avrei egoisticamente risvegliato le ansie degli altri miei compagni e non me lo sarei perdonato. Attraversammo il ponte di legno sul fiume che ci avrebbe condotti in un sentiero verso la montagna. Lo prendemmo aumentando il passo. “Ikuyo!” ci urlò il capitano e noi iniziammo a sudare inciampando di tanto in tanto sulla strada acciottolata. Attraverso le fronde aperte degli alberi, dei leggeri e quasi freddi fasci di luce ci colpivano la vista facendoci stringere gli occhi e rallentandoci sempre di più. Forse stavamo solo ipocritamente incolpando la Natura del nostro errore. Non che non volessimo morire o ritardare il momento, ma quasi quasi ci balenava in mente l’idea che la scelta di morte nel suicidio dovesse essere un avvicendamento lento. Nel momento in cui è una decisione, perché non dovrebbe essere pacata? Perché non insignirla di onore rituale come quello destinato a un bon funebre? Uno di quelli pieni di luce che fanno gli shintoisti di Kumano. Siamo giapponesi e per quanto permiati di morale zen, perché non ritornare alle origini almeno nel tipo di passo verso la morte? Iniziai a sentire le ginocchia più gonfie e il passo più pesante, come se il corpo stesse dando ascolto alla mia mente. Sentivo, inoltre, una completa affinità spirituale con i miei compagni, sapevo che stavamo pensando le stesse cose. Ad un certo punto la pattuglia si fermò in una radura semi-aperta e illuminata dal sole. Ci disponemmo in cerchio con lo sguardo solenne, ma allo stesso tempo vacuo. In quella vacuità degli occhi, tutti si rinchiusero per gli ultimi secondi nei propri pensieri e anche io lo feci. Ripensai un po’ a mia moglie, un po’ a mio figlio e in particolare alla mia casa, al suo tatami caldo, alle fusuma di carta dipinte con pini e sakura, alla veranda fresca nelle notti d’estate, al mio futon profumato, all’acqua del pozzo del mio cortile. Quando il capitano iniziò a parlare interruppe bruscamente i miei pensieri, ma feci in tempo a dire addio alla mia famiglia e al suo fuoco caldo e sincero che mi rincuorava dopo una missione. Ora la mia missione stava finendo, l’unico nostro dovere prima della morte era ascoltare il nostro capitano.
    La sua voce era dura, il suo sguardo fisso nel vuoto, la mano destra stretta sul manico della spada.
    “Questo non è un giorno felice, non lo è perché se lo fosse, saremmo a casa nel caldo dei nostri letti al fianco delle nostre mogli.. con la gioia della vittoria nei nostri sogni. Ma questo non è neppure un giorno per il quale compiangersi, perché ci viene concesso di espiare la nostra sconfitta. Questo è un giorno d’onore! Un giorno per ogni guerriero che rappresenti se stesso e il Giappone, il Dio per cui ci immoliamo. Noi ci sacrifichiamo all’altare della nazione, col cuore in mano e devozione nella lama! Mentre la nostra guida, l'Imperatore, sarà l’unico che potrà pensarci con commozione. Allora uomini leali e coraggiosi, uccidiamo la sconfitta con la katana nel ventre e ci rincontreremo sinceri tra le braccia assolute del mondo. Moriremo e la nostra bandiera brillerà sui nostri corpi e urlerà al vento il nostro amore: TENNO HEIKA BANZAI!!”
    Simultaneamente ci mettemmo in ginocchio, graffiandoci col terriccio e seduti sui talloni sfoderammo all’unisono la katana corta, mentre con la mano sinistra tenevamo un morbido fazzoletto di seta ripiegato. Poggiammo la mano col fazzoletto sulla lama che rigirammo con la punta rivolta verso il ventre. Sentivo il sangue ribollire di adrenalina. Il capitano sfoderò la katana lunga fendendo il vento e si mise in piedi dietro a Takeo. Uno a uno i soldati si trapassarono l’intestino, cercando di trattenere il dolore con la forza della volontà samuraica. E uno a uno vennero decapitati da Shigeru-sama, per preservare il volto dalle smorfie dell’agonia. Io guardavo in silenzio i corpi cadere, le teste rotolare, il sangue zampillare, e il volto del capitano imbrattato completamente. Mi chiesi… guardando il suo volto, se fossi mai riuscito a mantenere lo spirito tanto forte nel peso dell’onore di uccidere i miei compagni. Poi mi dissi di sì, che era quello lo spirito del guerriero, era quella la via. E con un urlo lasciai questo mondo, mentre lo sguardo del mio capitano sulle spalle mi infondeva coraggio.
    “SEPPUKU!”
    E dopo, più nulla… solo sangue e amore… “Tenno heika banzai…”






    E voi? Cosa ne pensate?

    PS a breve un articolo dettagliato sulla situazione del suicidio nel Giappone contemporaneo.






    L'uomo del Genji
    Il canone di bellezza maschile giapponese



    Quante volte avremmo sentito i nostri genitori ripeterci: "ma in quei cartoni giapponesi i maschi sembrano delle femmine!". E come gli si poteva negare? Abbiamo prova proprio con lo yaoi che il canone di bellezza degli uomini molto spesso è più vicino a lineamenti morbidi e femminili che duri e maschili. Ma questo non è una sorta di perversione, non è un richiamo alla pedofilia moralmente accettata (un'immagine fasulla e ignorante propria solo dell'occidente) ma è più semplicemente un retaggio culturale.
    Parliamo dell'influenza delle donne nella letteratura antica giapponese. Anzi no, le donne hanno letteralmente inventato la scrittura e la letteratura. Chiuse in casa, le donne hanno iniziato a dedicarsi alle arti, alla musica, alla danza e all'arte della scrittura inventando di sanapianta un alfabeto sillabico: gli Hiragana. E queste donne, che divennero il corrispettivo del nostro Dante o del nostro Manzoni, delinearono spesso nelle proprie opere un modello di uomo che pareva essere quasi più una donna che un uomo.
    Il colosso della letteratura classica è il Genji Monogatari di Murasaki Shikibu.

    Dipinto su carta di Murasaki Shikibu


    "La parola monogatari (物語 - ものがたり) proviene da mono, che significa “cosa” e talvolta “e katari, che significa “narrare”, “riferire”, “raccontare”"

    Quindi letteralmente monogatari vuol dire "storia raccontata". In effetti spesso un monogatari è la storia scritta di una serie di pettegolezzi e storielle che si ascoltavano a corte e di cos'altro potevano scrivere altrimenti le nobildonne chiuse nelle tenute? Questo da una parte fa capire come ci sia un nocciolo di verità nella loro visione della bellezza, dall'altra come invece siano spesso storie romanzate e frutto di un sogno puramente femminile.
    Il Genji quindi è un insieme di tutto questo.

    Ma chi era Genji?

    "Il romanzo narra la vita di Genji, un figlio dell'Imperatore del Giappone, conosciuto anche come Hikaru Genji, Genji lo splendente. Nessuno dei due epiteti tuttavia è il suo vero nome. Genji è semplicemente un modo di leggere il kanji che indica il clan Minamoto, realmente esistito, dal quale Genji era stato adottato per ordine imperiale; per ragioni politiche infatti, Genji non poteva appartenere ufficialmente al ramo principale della famiglia imperiale e dovette iniziare la sua carriera politica da semplice funzionario di corte"

    Genji è un nobile, ma anche un nobile in un certo senso "inattivo". Vive di arte, di poesie, di donne. Lontano dalla guerra, lontano da responsabilità cresce nella propria eterea bellezza.
    Murasaki descrive i suoi capelli lunghissimi, neri e lisci come la seta, proprio come quelli di una donna. Il viso ha tratti leggeri e gentili, le labbra rosse e gli occhi sottili. Il profumo dolce. Insomma, sembrerebbe più una principessa che un principe, eppure il Genji all'epoca era il sogno di ogni dama come estetica.

    Dipinto su tela - un'immagine del Genji


    Sarebbe ingenuo pensare che un'opera simile non abbia segnato profondamente l'immaginario dei giapponesi in merito al canone estetico. Sarebbe come negare che il canone greco abbia influenzato la visione occidentale. Quindi questo dimostra come determinate cose che a noi possono sembrare strane o incomprensibili hanno una ragione culturale profonda e reale, esattamente come per l'Occidente, ma semplicemente diversa.

    Dalla storia di Genji sono state tratte molte opere contemporanee come manga e anime. Ma in generale tutta la cultura pop è sicuramente stata influenzata dall'immagine del "principe splendente" di Murasaki.

    Dopotutto adesso potrete rispondere a chi vi porterà la critica: "ma sembrano donne", con qualche ragione e informazione in più.

    Di seguito la soundtrack di uno degli anime ispirati al Genji Monogatari.



    Fonti:
    http://it.wikipedia.org/wiki/Genji_monogatari
    www.sulgiappone.it/letteratura-giapponese/monogatari
    Narrativa classica giapponese - di Luisa Bienati








    Il periodo Kamakura
    La storia del samurai e l'avvento della classe guerriera



    Giardino nord dell'Engaku-ji tempio zen costruito alla fine del periodo Kamakura


    In un paese in crisi, dilaniato dalle divisioni interne, con un potere centrale instabile e una nobiltà che si crogiolava sugli allori senza organizzare lo stato, fu facile per i proprietari terrieri finanziarsi un proprio esercito e controllare autonomamente la propria zona. E fu altrettanto facile, di contro, il bisogno di eserciti fedeli, più che di mercenari... e fu così, a grandi linee e detto molto semplicemente, che nacque la classe guerriera giapponese.

    "Nonostante i numerosi tentativi di centralizzazione del potere, anche in questo periodo la società giapponese rimaneva legata alla struttura degli uji, su cui il governo imperiale non riuscì mai a imporre la sua completa autorità anche a causa delle scarse risorse militari, perciò cercò di tenerli sotto controllo attraverso la concessione di cariche pubbliche e svariati privilegi, come il possedimento perpetuo delle terre o l'esenzione fiscale.

    Nel periodo Heian la corte si servì sempre di più dei governatori provinciali, i kokushi, per amministrare le terre lontane dalla capitale ma questi ne approfitarono per consolidare il proprio potere, dando vita a un decentramento del potere politico, tale che il ruolo dell'imperatore divenne con l'andar del tempo solo cerimoniale e religioso"


    La centralizzazione del potere su modello cinese che avevano cercato di applicare in periodo Heian aveva quindi fallito e i governatori, i vassalli e i guerrieri iniziarono a dividersi il potere che andava frammentandosi sempre di più.
    Lo shogun è il nome dato dall'imperatore a Yoritomo, il primo shogun del Giappone in periodo Kamakura. Questo appellativo gli venne dato per estendere i possedimenti del paese contro i "barbari", ma acquisito potere e finanziando, con i soldi dei propri possedimenti, un grande numero di guerrieri la struttura amministrativa del paese cambiò radicalmente. Si istituì il governo del Bakufu parallelo all'impero e il potere politico si spostò nelle mani dei grandi proprietari terrieri e in particolare dello Shogun. E come venne formandosi la classe samuraica? Fu lo stesso Yoritomo a dare ai guerrieri il potere territoriale amministrativo.

    "L'apparato amministrativo del bafuku si basava su tre organismi: il Samurai Dokoro, il Mandokoro e il Monchujo.
    Il Samurai Dokoro era l'Ufficio per gli affari militari e fu istituito da Yorimono nel 1180, agli inizi della guerra Genpei, aveva il compito di sorvegliare i vasalli e dirigere militari e polizia.
    Il Mandokoro era l'Ufficio amministrativo nel quale nel 1191 confluì il Kumonjo, un Ufficio dei documenti pubblici che era stato istituito nel 1884, si doveva occupare di questioni politiche e amministrative.
    Infine vi era il Monchujo che corrispondeva alla Corte d'appello e doveva dirimere le contese e far rispettare le leggi.
    Fino al 1185 questi organismi erano limiati al clan Minamoto ma in seguito entrarono a far parte del bakufu e a riguardare tutte le terre da esso controllate"


    Il primo shogun giapponese Minamoto no Yoritomo


    La gerarchia militare e il bushido

    Nella classe militare del periodo Kamakura esisteva una rigida gerarchia al cui vertice, dopo lo shogun, si trovano i gokenin, una cerchia ristretta di vassalli con privilegi economici e cariche pubbliche.
    Sotto di loro si trovavano i samurai dotati di armi e seguaci, mentre ancora più in basso si trovavano i zusa, ossia i fanti privi di cavalli e armature elaborate.
    In tutti i gradi della gerarchia era dovuta obbedienza al superiore e bisognava rispettare il bushido, codice che aveva come valori il coraggio, l'onore, la frugalità e la disciplina.

    Questi sono solo cenni storici sulla nascita e l'avvento della classe guerriera in Giappone, per delineare esattamente il pensiero samuraico, l'ordine di valori e i caratteri del bushido, non basterebbe tutto il forum, per questo motivo di seguito vi propongo una serie di fonti da poter consultare autonomamente, lasciando a voi la possibilità di integrare notizie a questo mio piccolo incipit.

    Fonti

    Informazioni generali riguardo la storia giapponese QUI

    Il film COMPLETO! dell'ex samurai e scrittore Yukio Mishima sul tema del doppio suicidio d'amore QUI

    Come libri vi consiglio:
    Storia del giappone - di Caroli & Gatti
    Lezioni spirituali per giovani samurai / Hagakure nyumon - entrambi di Yukio Mishima
    Hagakure - di Yamamoto Tsumetomo
    Il libro dei cinque anelli - di Musashi









    "Io sono un gatto"
    Il romanzo di Natsume Soseki raccontato dal punto di vista di un gatto




    "Watashi ga neko de aru" (我が輩は猫である), letteralmente, Io sono un gatto un romanzo del 1905 che ha rivoluzionato la narrativa moderna giapponese.

    In quegli anni la letteratura giapponese stava cominciando a prendere una direzione diversa, nuova per l'epoca, il tema riguardò sempre più un carattere individuale, introspettivo e di analisi psicologica dei personaggi. Gli autori del cosiddetto Shishosetsu (=Il romanzo dell'io) incentravano la trama sul pensiero e i sentimenti del protagonista, più che sulle azioni. In un periodo storico di crisi, di guerra e di occupazione americana la narrativa denunciò o trattò, in generale, il rapporto tra modernità e tradizione parlando del ruolo dell'intellettuale e della scelta dell'individuo. E' più importante il gruppo o la persona? Natsume sosteneva che l'individualismo non doveva né sfociare in egocentrismo né, tuttavia, doveva sottomettersi alla nazione in maniera passiva. Insomma, una via di mezzo.

    Foto di Natsume Soseki


    In Io sono un gatto la storia è narrata attraverso la voce di un gatto che osserva le mille contraddizioni del padrone Kushami un insegnante d'inglese che dentro casa rivela le sue incapacità. La critica spesso ha paragonato Kushami all'autore e il gatto a una maschera "critica" che Natsume indossa per narrare la vicenda in maniera razionale.

    Copertine e pubblicità di Io sono un gatto di Natsume Soseki


    Riporto in citazione la trama più dettagliata:


    CITAZIONE
    Un gatto abbandonato da cucciolo, si è introdotto in casa di Kushami, dove non è stato accolto con grande entusiasmo, al punto da non aver mai ricevuto un nome. La famiglia, composta da padre, madre, due figlie ed una serva, non è affettuosa con lui, ma lo nutre e qualche volta il padrone lo accarezza, e questo gli basta per sentirsi "Il gatto" padrone di casa. Parla qualche volta con i suoi simili, come il Nero del vetturino e Micetta, che presto gli viene a mancare. Ma il suo passatempo preferito è quello di ascoltare i discorsi del suo padrone quando gli amici vanno a fargli visita.

    Diventa così un gatto tuttologo, analizza il comportamento umano, si intende di storia, Grecia antica in particolare, letteratura, medicina e altro ancora.

    La trama si snoda attraverso i problemi di Kangetsu, laureato in fisica, ex studente di Kushami che è un professore di inglese al liceo. Il giovane dovrebbe sposare Tomiko, figlia viziata dei coniugi Kaneda, i vicini di casa arroganti, ignoranti ma ricchi. Le visite di Kangetsu si alternano a quelle di altri amici, tra cui il burlone Meitei, l'uomo d'affari Sanpei, il poeta Tofu e personaggi minori. Per difendere il giovane amico dalle mire della famiglia Kaneda il padrone del gatto subisce diverse angherie, che pesano molto al suo spirito poco accomodante e poco intraprendente, dagli insulti di sconosciuti alle molestie degli studenti del vicino liceo Le Nuvole Calanti. Attraverso episodi che si intrecciano con la banale vita del suo padrone, il gatto esprime il suo pensiero in modo addirittura filosofico (ma dal punto di vista di un gatto, s'intende!), arricchendo il discorso con vere o presunte massime zen.

    Perchè proprio un gatto? Beh è ormai indubbio quanto il Giappone sia incredibilmente affacinato dall'immagine del felino domestico, come e il perchè non ce lo spiega Soseki, ma al di là dell'intuizione ovvia, le motivazioni potrebbero essere culturali e storiche di difficile spiegazione. Come molte cose riguardante il Giappone, forse non è nemmeno così importante saperlo; a differenza dell'occidente l'ombra e il silenzio sono canoni estetici fondamentali.

    Riporto sempre in citazione una parte del libro:


    CITAZIONE
    Le zampe dei gatti, ovunque si posino, sono così silenziose che non tradiscono mai la loro presenza, quasi calpestassero il cielo o le nuvole. Sono come un gong suonato sott’acqua o un koto pizzicato in una grotta, sono l’intuizione muta e immediata delle delizie della vita.

    ...non capisco, nonostante il mio acume, a cosa serva tutto ciò. Se lo sapessi potrei reagire in qualche modo, ma prendere botte così, senza un motivo, mette in difficoltà sia la padrona che me le dà, sia me che le prendo. Non avendo ottenuto per due volte il risultato desiderato, il mio padrone, un po' irritato, insiste: "Dagli una botta che lo faccia miagolare, ti dico!" "E cosa ci guadagni, dopo averlo fatto miagolare?" chiede la moglie con aria annoiata, dandomi un colpo un po' più forte. Benché non sappia quale sia lo scopo del padrone, se basta che pianga per farlo contento, posso anche piangere. La sua stupidità è davvero perniciosa, se voleva farmi miagolare, bastava che lo dicesse, non aveva bisogno di ricorrere a sistemi tanto brutali. Né io ho bisogno che mi si ripetano le cose due o tre volte. Perché dare l'ordine di colpirmi, se lo scopo era un altro? L'atto di picchiare dipende da lui, ma la decisione di miagolare dipende da me. È stato molto scorretto da parte sua includere nel suo ordine qualcosa che esula dai suoi poteri, dando per scontato che io obbedissi.

    Gli umani per quanto forti non saranno in auge per sempre. Meglio attendere tranquillamente l'ora dei gatti.

    Il libro fu in origine stampato in 10 puntate nel giornale letterario Hototogisu. L’intento di Soseki era quello di scriverne solo la prima puntata, ovvero il primo capitolo di Io son un gatto, ma fu persuaso dall’editore del giornale a continuare la serie, che si evolve stilisticamente a mano a mano.
    A metà degli anni ’70 la serie, ormai un libro, fu trasformata in film dal famoso screenwriter Toshio Yasumi, diretto dal regista Kon Ichiwaka.


    Clicca sul gattino per vedere il film. PS purtroppo è in giapponese con sottotitoli in greco (?!) ma poteta dare un'occhiata anche solo ad alcune scene


    Curiosità!

    Il ritratto di Soseki è stato stampato sulle banconote da 1.000 yen emesse dal 1984 fino al 2004.


    Fonti: http://it.wikipedia.org/wiki/Io_sono_un_gatto / http://www.japancoolture.com/it/io_sono_un...i_sseki_natsume
    Narrativa moderna e contemporanea - di Luisa Bienati e Paola Scrolavezza





    "Ecco l'impero dei sensi"
    Il film erotico giapponese firmato Nagisa Oshima



    Se pensate che il porno d'autore sia erotico spicciolo da quattro soldi con una parvenza di ambientazione reale vi sbagliate! In Giappone l'ormai morto regista e sceneggiatore Nagisa Oshima ha presentato il suo film erotico: "Ecco l'impero dei sensi" (Ai no Korīda) al 29° festival di Cannes.


    Nagisa Oshima(大島 渚 Ōshima Nagisa) (Kyōto, 31 marzo 1932 – Fujisawa, 15 gennaio 2013) è stato un regista e sceneggiatore giapponese.


    Il film rappresenta in pieno l'immagine erotica giapponese: drammatico, profondo, ricco di esperienze sadomaso e di autopunizione. Un universo differente da quello occidentale, in cui l'erotismo viene surclassato a genere cinematografico grezzo e inferiore. "Ecco l'impero dei sensi" è pieno di scene pornografiche integrali e non censurate e per quanto possa sconvolgere a livello artistico, non manca di porre lo spettatore di fronte al vero messaggio della pellicola: cosa succede quando il sesso e la sua ossessione diventa una vera e propria malattia?

    Una scena tratta dal film


    La storia inizia in modo semplice finendo per sconvolgere completamente il pubblico con un finale (sì e no inaspettato) che rasenta l'assurdo. Ma tanto assurdo non è visto che la protagonista, Abe, e la sua storia è un fatto realmente accaduto nel Giappone della fine degli anni '30. Riporto la trama del film presa da Wikipedia sotto spoiler per non rovinare la sorpresa a chi è intenzionato a vederlo.


    SPOILER (<a href="javascript:spoiler()">clicca per visualizzare)
    Tokyo, 1936. Il legame tra la giovane cameriera Abe Sada e Kichi, il proprietario della pensione presso cui presta servizio, è fatto di un amore totalmente dominato dai sensi. La relazione parte dall’attrazione reciproca, si evolve attraverso l’estasi sensuale per precipitare, nel finale, in un baratro erotico. I due amanti vivono alimentando (e alimentandosi di) questo tipo di legame, l’uno in funzione del piacere che può dare all’altro, annullando, con l’ossessivo ripetersi degli amplessi, ogni forma di quotidianità tradizionale e di razionalità. La costante necessità che hanno l'uno dell'altra è tale che non possono impedirsi di copulare nemmeno in presenza di altre persone o all'aperto. Il compulsivo consumarsi del gesto carnale, che diviene sempre più estremo, si conclude con la morte di Kichi, soffocato nell'ultima e mortale trasgressione. Nel finale Abe Sada recide il membro di Kichi - di evidente valore simbolico e affettivo - e se ne appropria, serbandolo con cura nel kimono per tre giorni, fino all'arresto da parte della polizia.


    Quindi, in fondo, il film ha come risvolto negativo, oltre alla critica dell'alienazione dell'uomo rispetto al sesso, l'azione che porta al commettere un crimine. Non per niente Oshima ha attraversato con la sua macchina da presa quarant'anni di storia del suo paese, attraverso opere riccamente tessute, spesso impegnate politicamente, non di rado impietose verso l'essere umano e segnate da un unico comune denominatore: la disanima di una forma di volta in volta differente di crimine.

    Questo è solo un piccolo spunto per spingervi (e dal canto mio ve lo consiglio vivamente) a vedere questo classico del cinema erotico mondiale. il film è del '76, ma il tema è il più attuale di sempre.
    Di seguito un self made in inglese come trailer del film.


    Clicca sulla locandina per vedere il video


    Fonti: http://it.wikipedia.org/wiki/Ecco_l'impero_dei_sensi / http://it.wikipedia.org/wiki/Nagisa_%C5%8Cshima & Lo schermo scritto - Letteratura e cinema in Giappone, un libro di Maria Roberta Novielli e Paola Scrolavezza

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